domenica 29 aprile 2012

(Un "pizzico" di...) Castelli di rabbia, Alessandro Baricco





Perché c’era qualcosa, tra quei due, qualcosa che in verità doveva essere un segreto, o qualcosa di simile. Così era difficile capire ciò che si dicevano e come vivevano, e com’erano. Ci si sarebbe potuti sfarinare il cervello a cercar di dare un senso a certi loro gesti. E ci si poteva chiedere perché per anni e anni. 
L’unica cosa che spesso risultava evidente, anzi quasi sempre, e forse per sempre, l’unica cosa era che in quel che facevano e in quello che dicevano e in quello che erano c’era qualcosa per così dire di bello. Non ci si capiva quasi niente, ma almeno quello lo si capiva.

venerdì 27 aprile 2012

Il castello nel cielo, l’ennesima perla finita nel "dimenticatoio" italiano





La Lucky Red decide di portare sul grande schermo il capolavoro del maestro Hayao Miyazaki (regista de Il castello Errante di Howl e Ponyo) risalente al 1986. Distribuito in 100 sale italiane dal 25 aprile Il castello nel cielo (Laputa), città del cielo de “I viaggi di Gulliver”, racchiude in sé la magia della poesia e dell’avventura in pieno stile nipponico.

E’ giunta dunque l’ora di aprire una volta per tutte gli occhi e le menti e mettere la parola fine a spiacevoli e dannosi pregiudizi che fanno ancora credere che gli unici “cartoni” degni d’esser visti siano quelli firmati Walt Disney. Già, perché il nostro paese vanta da sempre una miopia culturale nei confronti di perle d’animazione come questa e non possiamo essere più lieti di sostenere intelligenti iniziative di recupero (come quello di Porco Rosso), volte a promuovere tutto ciò che finisce nel dimenticatoio italiano. 

Carico delle peculiarità dello Studio Ghibli, Il castello nel cielo racconta la storia della giovane Sheeta, tenuta prigioniera dal collonello Muska a bordo di un’aeronave. Una notte questa viene attaccata dai pirati dell’aria i quali vogliono impossessarsi del ciondolo che Sheeta porta al collo. Questo sembra avere dei legami con la leggendaria isola fluttuante di Laputa. La ragazzina riesce a fuggire finché non finisce tra le braccia del giovane minatore Pazu, con il quale inizierà l’avventura nella ricerca dell’isola e dei suoi misteri.

Non avete ancora idee per il week end? Cosa aspettate allora…Il castello nel cielo, vi aspetta…

Quando Arte e Gusto si incontrano


A Castellina in Chianti si svolge la seconda edizione del Premio Internazionale di Pittura Zingarelli-Rocca delle Macìe. L’iniziativa prevede un’esposizione durante la quale giovani artisti propongono le loro opere. I vincitori saranno premiati presso la sede dell’azienda a settembre 2012.


L’azienda vitivinicola del Chianti Classico Rocca delle Macìe, fondata nel 1973 da Italo Zingarelli (produttore cinematografico di C’eravamo tanto amati di Ettore Scola, e della serie di film con Bud Spencer e Terence Hill, tra cui Lo Chiamavano Trinità e Continuavano a Chiamarlo Trinità),ospita dal 19 aprile una mostra d’Arte Contemporanea. Questa espone le opere di 19 giovani talenti selezionati, italiani e stranieri. L’iniziativa della famiglia Zingarelli-Rocca delle Macìe, da sempre a favore dell’arte, vuole valorizzare opere nuove, dando agli artisti visibilità e la possibilità di farsi conoscere anche nel mercato artistico. Il premio di Pittura Zingarelli è motivo d’orgoglio per l’azienda. Soprattutto considerando l’attuale situazione che nel nostro paese stanno vivendo l’Arte e la Cultura.
Il periodo dell’esposizione si concluderà il 30 settembre 2012. Il pubblico potrà votare le opere ponendo le proprie preferenze in un’urna sigillata da un notaio. Il 29 settembre 2010 è avvenuta la proclamazione dei vincitori della prima edizione del Premio Internazionale di pittura Zingarelli-Rocca delle Macìe. La vincitrice è la trentunenne Alice Andreoli con l’opera “Per aspera ad astra” (acrilico su tela 100x100,2009) mentre Luca Zarattini ha ottenuto dalla famiglia Zingarelli il Premio Sasyr con l’opera “Il Signor Vignaiolo Perbacco” ( tecnica mista su tavola 100x100,2010). Quest’anno è previsto un Premio unico di pittura di 3.500,00 Euro e un Premio “Speciale famiglia Zingarelli” di  1.500,00 Euro assegnato dalla famiglia a quell’opera che secondo il loro giudizio rispecchierà di più l’identità dell’azienda.


Il tema scelto per questa edizione, "Il Giardino del Getsemani" (o Orto degli Ulivi), mette in evidenza un altro aspetto fondamentale del territorio, gli ulivi e la produzione di olio extravergine. “Fare l’olio”, afferma Sergio Zingarelli, “è un’arte e l’arte, da sempre intrinsecamente legata all’olio, è anche un mezzo per comunicare. La pittura è sempre stata una grande passione di mio padre ed è per questo che sono molto orgoglioso di dedicare a lui il nostro nuovo progetto culturale”. Il Premio, infatti, nasce come omaggio a Italo Zingarelli, grande amante della pittura. Durante il corso della sua vita egli ha sempre prestato particolare attenzione ai giovani che con impegno e determinazione lottano per realizzare i propri sogni. Un’iniziativa davvero originale e significativa che vuole ricordare l’importanza dell’Arte e del suo inestricabile filo che lega la pittura alle passioni e alla vita dell’uomo.

Di Valentina Orsini

Sweeney Todd: il barbiere diabolico di Fleet Street


Sicuramente un film che non lascia indifferenti, l' ennesimo capolavoro, in stile gotico- musicale (ispirato all' omonimo musical di Stephen Sondheim e Hugh Wheeler), firmato Tim Burton. 
La storia di questo protagonista "un po' diabolico" viene magistralmente proposta allo spettatore da titoli di testo che subito catapultano nel mondo scuro e lugubre in cui la vicenda si svolge. Forte l'impatto che si ha con lo schermo, tipicamente Burtoniano, solo un colore emerge nell' oscurità più totale: è il rosso del sangue che scorre incanalandosi tra insoliti ingegni metallici roteanti.

Affascinante la scenografia di Dante Ferretti e Francesca Lo Schiavo, i quali hanno dipinto una Londra mai vista prima  e più che meritevole di un oscar. Ogni cosa è intonata e messa al posto giusto, tutto gira senza intralci in questa favola inquietante, e non poteva certo mancare un pregevole contributo musicale ( Stephen Sondheim)  il quale rende, se riuscito, ogni cosa più sublime.

L' interpretazione di Depp è unica nel suo genere e volerla superare sarebbe impossibile; Quando si pensa a ruoli così " insoliti", questi personaggi così inconsueti, non può che venir in mente lui, veramente " divino".
Buona però anche l' interpretazione di Helena Bonham Carter, nei panni di Mrs Lovett, una donna dedita all' arte del "dolciume" e in crisi lavorativa ( e non solo), poiché nessuno più si avvicina alla sua bottega. Solamente una " singolare" ricetta salverà Mrs Lovett e farà si che i suoi " pasticci" siano i più amati di Londra.

"Sweeney Todd", il nostro barbiere provetto ( personaggio che compare in molti scritti della letteratura inglese del XIX secolo con il nome di Benjamin Barker,  probabilmente primo esempio letterario di "serial killer"), è alle prese con la sua incontrollabile fame di vendetta, scatenata da un grave e imperdonabile torto subito in passato, la quale deve essere assolutamente soddisfatta e con ogni mezzo, " qualunque esso sia". Egli ce l' ha col mondo intero e considera ogni uomo indegno della vita datagli, poiché non ci sono più valori, non c'è giustizia o morale che tenga in questo mondo, solo brama di potere e malvagità.

Un' oscura quanto più reale metafora si cela quindi dietro la notte e il fumo scuro di Londra, a voi coglierne l' essenza e apprezzarne l' incantevole messa in scena.

Di Valentina Orsini 

giovedì 26 aprile 2012

Uno sguardo in libreria


    

Ho deciso di aggiornare ogni settimana una sorta di rubrica dedicata al mondo editoriale. Con la speranza che questa aiuti a mantenere sempre attivo l’interesse verso la lettura…perché non può non essere così, leggere è da sempre il modo più piacevole di impiegare il nostro tempo…

Massimo Gramellini, nonostante un significativo calo di numero di copie vendute rispetto a quindici giorni fa, rimane ancora l’autore più letto dagli italiani. Sorpresa di questa settimana è senz’altro vedere in seconda posizione la raccolta di racconti firmata Luciano Ligabue che soffia il posto al Dizionario delle cose perdute del cantautore emiliano Francesco Guccini. In quarta posizione il nuovo romanzo di Alessandro Baricco. Nonostante l’autore abbia espressamente dichiarato che quest’ultimo lavoro sia del tutto autonomo e da considerarsi una storia “a sé, viene naturale ritornare a “Mr Gwyn”, (uscito a novembre 2011), in cui si accenna a questo piccolo libro scritto da un angloindiano e intitolato, per l’appunto, Tre volte all’alba. A seguire Rick Riordan, Pierre Dukan e la commovente storia di Fulvio Ervas che racconta del difficile rapporto tra un padre e un figlio autistico intenti a risolvere i propri problemi relazionali. Slitta in ottava posizione il maestro Camilleri mentre chiudono la top ten i due thriller di Carlotto e Mosca, rispettivamente in nona e decima posizione

1. “Fai bei sogni” (Massimo Gramellini, Longanesi)
2. “Il rumore dei baci” (Luciano Ligabue, Einaudi)
3. “Dizionario delle cose perdute” (Francesco Guccini, Mondadori)
4. “Tre volte all’alba” (Alessandro Baricco, Feltrinelli)
5. “Lo scontro finale. Percy Jackson e gli dei dell’Olimpo” (Rick Riordan, Mondadori)
6. “La dieta Dukan illustrata” (Pierre Dukan, Sperling e Kupfer)
7. “Se ti abbraccio non avere paura” (Fulvio Ervas, Marcos Y Marcos)
8. “La regina di Pomerania e altre storie di Vigàta” (Andrea Camilleri, Sellerio)
9. “Respiro corto” (Massimo Carlotto, Einaudi)
10. “Il profanatore di biblioteche proibite” (Davide Mosca, Newton Compton)

Beh, che dirvi, correte in libreria e…”buona lettura”…




mercoledì 25 aprile 2012

Tra lacrime e sorrisi, il debutto romano di Venditti nel giorno dedicato alle donne


Dopo il successo raggiunto con “Dalla pelle al cuore “, risalente a quattro anni fa e dedicato alla madre Wanda Sicardi Venditti, scomparsa nell’ estate del 2007, torna sul palco Antonello Venditti. Ad aprire l’ <<Unica Tour 2012>> è la doppietta romana ( presto tripletta, vista la terza data fissata al 5 di Maggio ) che registra in entrambe le serate,dell’ 8 e 9 Marzo scorso al Palalottomatica, il tutto esaurito. La realizzazione di “Unica”, questo il nome del nuovo album, ha lanciato un’ importante novità nel mondo discografico italiano. Heinz Music, RCA/Sony Music e F&P Group (rispettivamente etichetta, casa discografica e agenzia per l’attività live di Venditti), danno l’ opportunità di acquistare insieme, in un’unica confezione, disco e biglietto per un concerto. Uno Special package che offre vantaggi davvero esclusivi. E’ stato un debutto dal profumo di festa, novemila voci a intonare “ tanti auguri Antonello “ ( il cantautore romano compie sessantatre anni ), tra champagne e candeline, e un importante omaggio alla figura della donna. Una scelta, questa, non casuale. "E' il giorno perfetto - ammette Antonello-. Io ho scritto tanto di donne nelle mie canzoni. Di donne e di amicizia. Un sentimento questo rafforzato dalla perdita recente di Lucio Dalla, un amico importante che mi ha insegnato il gusto del divertimento e a non avere paura". Il suo album, e' uscito proprio nei giorni di un importante passaggio politico per il nostro Paese, quello tra il governo Berlusconi e il governo Monti. "Rappresenta un canto di speranza -dice Venditti- soprattutto per le donne, vittime in particolare del disagio sociale che stiamo vivendo". Due ore e mezza di musica e sentimenti che abbracciano temi e questioni cruciali anche d’ attualità. Come i brani dedicati alle donne  italiane rapite Rossella Urru e Maria Sandra Mariani, ( Piero e Cinzia, Sara ). La realtà dell’ immigrazione nella nuova Oltre il confine. Richiami alla situazione politica e cronaca nostrana ( In questo mondo di ladri ), e  l’ immancabile Ricordati di me che fa da chiusura al concerto. Venditti torna in scena e lo fa riconquistando ancora una volta la stima e l’ entusiasmo del suo amato pubblico romano. Lo fa in maniera impeccabile, orchestrando il tutto tra lacrime di commozione ( nel doveroso e sentito minuto di silenzio per l’ amico Lucio e i giovani che hanno perso la vita durante l’ allestimento del palco per i concerti di Jovanotti e Laura Pausini ), e momenti di festa, tra stornelli e risa in compagnia degli inaspettati amici saliti sul palco a sorpresa, Renato Zero e Raffaella Carrà.

Di Valentina Orsini
(Roma 16 marzo 2012)

martedì 24 aprile 2012

The next three days


Un film di cui si potrebbe quasi dire che, "vale la pena vederlo, o meglio ascoltarlo", e non ci vuole molto ad afferrare il senso di questa premessa se solo ci limitiamo a pronunciare un nome: Danny Elfman.
 
Non parliamo certo di uno di quei film che lascia col fiato sospeso o sorprende lo spettatore con qualche trovata da esemplare thriller psicologico. Eppure qualcosa Haggis in questi 122' ( remake del francese Pour elle (2007) di Fred Cavayé) ci mette, a partire da un soggetto che sembrerebbe a primo impatto quasi "paradossale" e a tratti ridicolo. A primo impatto però, perché nel suo compiersi poi il film tenta la sua salvezza e in linea generale io direi che ci riesce. 

La storia è fondamentalmente quella di un uomo che per la donna che ama è disposto a tutto, anche se questo tutto  significa infrangere l' equilibrio di una vita vissuta fino ad' ora all' insegna delle regole e della tranquillità. Un uomo infatti fin troppo tranquillo, "normale", quale era il John Brennan professore di letteratura e padre di famiglia, diventa l' artefice di un piano praticamente perfetto in grado di far evadere la moglie dal carcere della contea di Pittsburgh. Un inno alla fiducia e all' amore coniugale se consideriamo il fatto che John mai ha dubitato dell' innocenza della moglie, accusata del' omicidio del suo capo e condannata al carcere a vita.
 
L' esistenza di John inizia a vacillare, soprattutto la speranza che egli riservava per un eventuale rinvio d' appello che poi non ci sarà, e che porterà il protagonista a quella che diverrà invece la sua "
giustizia privata". 
Un' altra denuncia che scotta e che ha la sua eco nel cinema di Haggis se pensiamo ai suoi precedenti
Crash- contatto fisico (2004) e Nella valle di Elah (2007) i cui temi affrontati dal regista erano rispettivamente quello delle difficoltà dei rapporti umani spazzati via dal razzismo e l' antimilitarismo con tanto di dichiarata polemica contro l' intervento di Bush nella guerra in Medio Oriente. Insomma questioni importanti che in entrambe le pellicole bene si intonano con la regia e la penna di Haggis. A proposito di "penna", non dimentichiamoci le brillanti sceneggiature da lui firmate, una su tutte Million dollar baby(2004)per Clint Eastwood come pure, per lo stesso Eastwood, Flags of our fathers (2006).
Tornando al film in questione, in America già si parla del classico "
flop" che troppo promette e poco mantiene; questo The next three days dà veramente l' idea del tipico film che inizi a vedere e già ti sembra che non funzioni. Questo accade (almeno a me è successo questo) perché già pensiamo di aver anticipato le mosse dello sceneggiatore e immaginiamo che quello che accadrà di lì a poco sarà esattamente ciò che abbiamo in testa. Invece le dinamiche di Haggis non vanno a finire nelle banali o comunque scontate e prevedibili mosse dell' action movie che vede un protagonista buono e tranquillo trasformarsi nel più terribile e astuto giustiziere "fai da te". 
Non una brillante sceneggiatura, questo è certo, ma colpisce, e non poco, il fatto che quest' uomo sarà aiutato dal suo incondizionato amore per la moglie, questa fiducia assoluta che egli nutre verso la donna sarà infatti la stessa che gli darà la forza e l' ingegno del perfetto stratego.Il tutto, però, ed è qui che credo Haggis abbia la meglio, condito da una equilibrata e sana
 "verosimiglianza" che mai stona (eccezion fatta per la particolare scena sull' autostrada, troppo alla Die hard, che io avrei sicuramente "eliminato") con la credibilità di una storia che vede come protagonista "un uomo assolutamente comune", (quasi circostanza Hitchcockiana azzarderei).
Dunque il film vacilla al' inizio per poi riprendersi a ritmi sempre più convincenti verso la fine.
 
Abbiamo sullo schermo infatti un uomo che porta avanti il suo piano senza mai aver avuto conferma dell' innocenza della moglie, nonostante questo neanche una volta egli si è chiesto se lo fosse o meno. Apprezzabile più che mai l' idea del  regista di rivelare soltanto verso la conclusione del film la "vera" dinamica dell' omicidio che ha portato Lara Brennan in prigione.
La
 fiducia incondizionata e assoluta rimane dunque la protagonista di quest' ultimo film di Haggis che secondo me, come ho anticipato nella premessa, vale comunque la pena vedere. Non solo per l' infallibilità di un attore che difficilmente delude come Russel Crowe perché sarebbe riduttivo e banale limitarsi a questo sottovalutando invece quella che è in conclusione la chiave di interpretazione del film: la colonna musica. Ciò che in certi casi è fin troppo una garanzia, un nome, un semplice nome: Danny Elfman.

Io concluderei dicendo a coloro che ancora non hanno visto il film e hanno intenzione di farlo:
 sedetevi sulla vostra poltrona "preferita" e una volta lì, come la sala si fa scura, provate a chiudere gli occhi e a seguire il film più con lo spirito da ascoltatore che da spettatore...qualcosa, fin dai titoli di testa, io già sò vi catturerà... 
Di Valentina Orsini

lunedì 23 aprile 2012

Letteratura o Cinema? Non si tratta di "scelta"...


Il polverone che ogni volta si alza tirando in ballo la questione " letteratura o cinema"è forse figlio di uno dei temi maggiormente trattati dalla " semiologia" sia in campo linguistico che cinematografico. 
La semiologia ( o semiotica), brevissimo accenno per chi non lo sapesse, è lo studio di "ogni tipo di segno", sia esso linguistico, visivo, gestuale, ecc...prodotto in base a un codice accettato e condiviso socialmente. 
Dunque partiamo dalla consapevolezza che entrambe le "arti", perché di arte si parla, vantano un incredibile bagaglio di potenzialità, poi, che una si muova nella dimensione verbale e l' altra in quella visuale, voglio dire, che differenza fa?


Io credo di appartenere a quella cerchia di, spero, tanti appasionati di cinema convinti dell' indissolubilità del rapporto "cinema-letteratura".
Quello che voglio dire è che tanto per una quanto per l' altra il nostro "fondamentale" compito è quello di saperne cogliere il senso più profondo per rispettarne lo spirito, senza mettere per forza dei paletti o dei margini di paragone che alla fine rischiano soltanto di spostare la nostra attenzione altrove.


Ovviamente gli esempi che meriterebbero di essere citati sono quasi "infiniti", sia tradotti in successi che in insuccessi, però, vorrei dedicare due righe al film che forse più di ogni altro possa testimoniare, secondo il mio modestissimo parere, come un mezzo così straordinario  e incredibilmente potente quale è appunto il cinema sappia rendere o addirittura "innalzare" lo spirito di un capolavoro letterario.
Quando lessi per la prima volta "Shining" di Stephen King rimasi immediatamente estasiata, sia perché King era tra i miei autori preferiti, e poi l' effetto che ebbe su di me fu assolutamente "insolito" diciamo così. Leggevo e la mia mente cercava di cogliere ogni cosa, di immaginare soprattutto questo luogo così "labirintico", ogni dettaglio, suono, colore, insomma, tutto. Il fatto insolito fu che la mia mente quasi era impossobilitata a ricreare questo sfondo e nel momento stesso in cui io chiusi il libro, nonostante l' indiscusso piacere che provai nel leggerlo, mi sentii quasi "incompleta", c' era qualcosa che mi mancava terribilmente (difficile spiegarlo).
Beh, passò un bel po' di tempo prima che io conobbi Stanley Kubrick, eppure Shining (romanzo) era rimasto impresso nella mia memoria come se non fosse trascorso neanche un giorno.
"Inutile sottolineare che stiamo parlando del più grande autore/regista e più che mai "maestro" che la storia del cinema possa ricordare".
Kubrick porta sullo schermo Shining nel 1980, io, considerando che ancora non ero nata, lo vidi vent' anni dopo e, lo ricordo come se fosse ieri, mentre quelle sequenze scorrevano davanti ai miei occhi capii che quello era esattamente ciò che la mia mente non riusciva a immaginare, quello era "Shining", quello, "esattamente quello" era tutto ciò che mi mancava.




Quello che per me è fondamentale è che se un film  "è bello", lo è a prescindere, un regista può tranquillamente ispirarsi ad un libro, può rimanerne fedele o stravolgerne la trama, poco conta.
Quel che conta è coglierne l' essenza e rispettarla, poi ogni "arte" ha i propri mezzi, le proprie sfumature, le proprie "verità".
Cosa importa se nel romanzo di King la camera è la 217 e nel film diventa 237, o se la morte di Jack avviene in circostanze differenti?


Insomma, leggiamo il libro e poi affrettiamoci a scoprire cosa accade quando questo prende vita davanti ai nostri occhi e si tramuta in immagine, perché nella peggiore delle ipotesi il regista ci deluderà, se così non fosse ci sentiremo incredibilmente "soddisfatti".


Letteratura e cinema, la parola che si trasforma in immagine, questa è la "magia". 

Di Valentina Orsini

domenica 22 aprile 2012

James Newton Howard


Howard va annoverato tra i compositori più "versatili" che il mondo del cinema ancora oggi conosca. Basti dare un' occhiata alla sua vastissima filmografia...
James Newton Howard nasce a Los Angeles nel 1951, si diploma in pianoforte alla University of Southern California e tra gli anni '70 e '80 se ne va in tournée, come tastierista, con uno dei miti della musica rock internazionale, Elton John. Dal suo primo approccio al mondo della musica a quello del mondo del cinema non passerà molto tempo, poiché il compositore statunitense mostra da subito una forte affinità con la settima arte. 

Certo è che Howard va annoverato tra i compositori più "versatili" che il mondo del cinema ancora oggi conosca. Basti dare un' occhiata alla sua vastissima filmografia per rendersi conto di come le sue collaborazioni passino con estrema naturalezza da un genere all' altro. Le sue musiche infatti sembrano adattarsi senza alcun "disagio" ad ogni tipo di film.

Vorrei ripercorrere insieme a voi, in maniera abbastanza semplice e sintetica, il percorso di Howard, dal suo "film-esordio" o meglio "trampolino di lancio"
 Pretty Woman (1990) al più recente L' ultimo dominatore dell' aria (2010).

Film esordio in realtà fu Promised Land del 1984 a cui seguirono altri tre titoli: Palle d' acciaio di Ken Finkleman (1985), Major League - la squadra più scassata della lega (1989) e Linea mortale del 1990.
La prima nomination all' oscar arriva con
 Il principe delle maree di Barbara Streisand, film drammatico-sentimentale del 1991 in cui predomina un tema d' amore carico di passione, nostalgia e malinconia. Non sarà la sola nomination questa per Howard, anzi, il compositore sarà più volte annoverato tra le candidature per la miglior colonna musica o miglior canzone ( ricordo infatti che Howard è musicista, compositore e paroliere).
Nel 1993 arriva la seconda nomination con
 Il fuggitivo di Andrew Davis, un thriller che si fonde a tratti con qualche nota di jazz.

Una delle più proficue collaborazioni di Howard è senza dubbio quella con il regista M. Night
 Shyamalan, per il quale il compositore ha realizzato indimenticabili colonne musica impregnate di una forte suspense, fino a raggiungere i canoni di una vera e propria musica psicologica. 
Vertice assoluto è il film del 2004
 The Village, in cui Howard riesce a coinvolgere l' ascoltatore/spettatore portandolo nel mistero e nella riflessione cui spinge il film stesso. Sceglie strumenti musicali efficaci, basti pensare al violino virtuosistico e al pianoforte che lo contrappunta, con l' orchestra di archi e alcuni fiati che lo esalta, il tutto, capace di rendere atmosfere e suggestioni incredibilmente potenti.
Consiglio di ascoltare
 "What are you asking me" uno dei momenti più alti del film, e, per molti, della stessa carriera del compositore.

Tra gli altri thriller-horror che io personalmente ho apprezzato, ricordo
 The sixth sense del 1999, dello stesso Shyamalan; L' avvocato del diavolo di Taylor Hackford (1997), insomma la lista di film da citare sarebbe davvero lunga, quindi mi limito ora a scorrere solo ed esclusivamente per titoli alcune delle "tante" riuscite musicali di Howard nel cinema.
Collateral di Michael Mann (2004), The interpreter di Sydney Pollack (2005) in cui interagiscono musica africana, flauti traversi e tamburi,
 Batman Begins di Nolan (2005) collaborando con Hans Zimmer. 


Per quanto riguarda King Kong di Peter Jackson (2005) il regista sostituisce all' ultimo il compositore Howard Shore per divergenze creative e, il fatto suscitò inevitabilmente scalpore vista la lunga collaborazione per "Il signore degli anelli". Nonostante Shore avesse già scritto la partitura per King Kong, Jackson la trovò troppo "intellettuale" e invitò Howard a scriverne un' altra in sole due settimane. Sicuramente non delude le aspettative del regista  e nemmeno quelle dello spettatore che non può fare a meno di assaporare una musica incantevole (a mio avviso).
Ogni personaggio è introdotto e anticipato quindi da un determinato tema, vi è un accenno musicale pronto ad introdurlo sulla scena, quasi a voler "preparare" lo spettatore, a suggerirgli un indizio (la prima volta che vediamo Kong udiamo ad esempio un ottone).

Piccola "chicca" se così posso definirla, ad un certo punto nel film possiamo osservare Howard Shore dirigere l' orchestra di fronte al palco dove si trova Kong, proprio davanti al pubblico di New York.


Per concludere sul vasto e quanto più brillante "curriculum" di Howard ricordo le sue collaborazioni per
 film d' avventura come Waterworld di Kevin Reynolds, Il pianeta del tesoro di Ron Clements e John Musker, The water horse- la leggenda degli abissi di Jay Russel. Non si tira indietro perfino nell' animazione, realizzando musiche per film come Dinosauri di Eric Leighton e Ralph Zondag e Atlantis- l' impero perduto di Gary Trousdale e Kirk Wise.

Di Valentina Orsini



sabato 21 aprile 2012

Fight Club


"Tu non sei il tuo lavoro, non sei la quantità di soldi che hai in banca, non sei la macchina che guidi, né il contenuto del tuo portafogli, non sei i tuoi vestiti di marca, sei la canticchiante e danzante me**a del mondo".
La vita tranquilla di un normalissimo e benestante assicuratore di una casa automobilistica, Edward Norton, viene profondamente stravolta dall' arrivo di Tyler Durden (Brad Pitt), un individuo piuttosto insolito dedito alla vendita di saponi. Norton però, stereotipo dell' uomo moderno, soffre di insonnia e di una terribile ansia che lo porteranno a frequentare gruppi di incontro per malati terminali. Qui in effetti il protagonista riceve come una sorta di beneficio consolatorio-psicologico, poiché si rende conto di essere l' unico sano tra i "veri" malati. La sua "quasi" ritrovata tranquillità però viene nuovamente messa in discussione dall' incontro con Marla (Elena Bohnam Carter), un' altra finta malata intrufolatasi come lui nelle terapie di gruppo.  La soluzione ai suoi problemi sembra dunque non arrivare, finché lo stesso Tyler non lo coinvolgerà nel progetto "Fight Club". 

Chiamiamola "boxe clandestina", anche se nel Fight Club non c'è chi vince e chi perde, a dominare gli animi degli adepti-combattenti è solo ed esclusivamente la voglia di una profonda rivincita spirituale, combattere contro (se stessi?) per vincere contro una società contemporanea annichilita e schiava del consumismo e del qualunquismo. Ogni membro del Club tra l' altro conduce parallelamente una vita assolutamente normale ma sarà di vitale importanza mantenere segreta l' esistenza dello stesso. 
Ogni sera questi appartenenti al club se le danno di santa ragione e combattono corpo a corpo fino allo sfinimento a volte, eppure, nei loro volti si percepisce una sorta di soddisfazione che deriva da un profondo senso di liberazione poiché solamente attraverso quei violenti pugni essi ritroveranno la via per un riscatto personale.
"Le cose che possiedi alla fine ti possiedono". Questa è la filosofia di Tyler, che, al contrario di Norton, è animato da un forte senso rivoluzionario, anticonformista e ribelle. Tyler infatti non mancherà di ricordare al protagonista, afflitto per aver perduto il suo costosissimo appartamento e dunque tutti i suoi beni, che nulla è davvero necessario e indispensabile come sembra, tutto è un macabro e convenzionale frutto di un sistema di massa di cui noi siamo schiavi. Fanno riflettere e pungono come spilli le parole di Tyler quando confida a Norton che ciò che più di tutto lo spaventa in questo mondo sono le celebrità sulle riviste, il volto del tizio che sta sulle sue mutande, la televisione con cinquecento canali...
Disegnato secondo precise e inviolabili "regole" il Fight Club arriverà però a degenerare in un vero e proprio gruppo terroristico chiamato "Progetto Mayhem". Specializzato nella realizzazione di esplosivi con l' utilizzo del grasso umano, atti a colpire le istituzioni.
Quando il protagonista si renderà conto di ciò che è stato creato, sarà ormai "difficile" stabilire nuovi e risanatori ordini tra i membri del Fight Club, poiché nessuno sarà disposto a violare quelli già stabiliti. 

Fincher
 dirige questo spettacolo inquietante secondo delle logiche che già ci aveva mostrato non troppi anni addietro con il thriller drammatico sui sette peccati capitali Seven (1995). Anche qui infatti il regista ci immerge in quelle atmosfere buie, violente e quasi mai illuminate se non da quelle psichedeliche e azzeccatissime luci al neon che si impiantano incredibilmente nella mente dello spettatore.

Doveroso ricordare che il film risulterà essere un eccellente addattamento dello splendido romanzo diChuck Palahniuk, e che lo stesso scrittore si dimostrerà entusiasta della trasposizione cinematografica di Fincher (quindi doppi complimenti al regista).

La denuncia di Fincher è la denuncia di un mondo ormai dominato dalle logiche capitalistico-industriali e l' uomo, ormai solamente vittima e a volte complice di questo sistema, non fa che vivere di cose materiali, preoccupato solo ed esclusivamente ad "addobbare" il proprio appartamento firmato Ikea.

In un' ottica assolutamente dura e tragica al tempo stesso, ma cinematograficamente parlando più che mai apprezzabile, il regista, decide che per l' epilogo della vicenda di Norton-Tyler avremmo dovuto assistere (e così sarà) all' "autodistruzione" del protagonista, che altra via d' uscita non trova, se non quella disbarazzarsi una volta per tutte del suo "alter ego" (e di se stesso).


venerdì 20 aprile 2012

Un romanzo da record per il vicedirettore de La Stampa






Si piazza subito in vetta alle classifiche il secondo romanzo di Massimo Gramellini. Presentato alla trasmissione di Fazio, Che tempo che fa, accende gli animi di alcuni lettori, vista la tragedia personale a cui esso fa riferimento. Il giornalista torinese si fa apprezzare grazie al suo stile scorrevole e immediato.


Fa parlare di sé come di un vero e proprio Fenomeno Editoriale, l’ultima fatica del giornalista, vice direttore de «La Stampa», Massimo Gramellini, Fai bei sogni, edito da Longanesi. Dopo il primo romanzo L’ultima riga delle favole, una sorta di Divina Commedia del terzo millennio, Gramellini si piazza in vetta alle classifiche vendendo centomila copie in soli dieci giorni. Attraverso una dolorosa autoanalisi l’autore affronta nel libro la scomparsa prematura della madre, dietro la quale si cela da anni una terribile verità. “Una storia che mi era cresciuta dentro per quarant’anni. Era arrivato il momento di affrontarla e tirarla fuori”- confessa l’ autore. Il libro viene presentato domenica 4 marzo in una puntata del talk show di Fabio Fazio Che tempo che fa, trasmissione in cui tra l’altro Gramellini occupa un ruolo oramai ben consolidato come curatore di una rubrica d’informazione. La copertina del volume, un bambino con un palloncino rosso, che ricorda gli aquiloni di Hosseini, è un omaggio a Salem piccola e innocente vittima dell’atroce assedio di Sarajevo di vent’anni fa. Ancora un volta mi ero illuso che la vita fosse una storia a lieto fine, mentre era soltanto un palloncino gonfiato dai miei sogni e destinato a esplodermi sempre fra le mani”. Avrà aiutato in qualche modo la presentazione dell’amico Fazio e i suoi 35’ televisivi , ma non si può certo negare a Gramellini una dote  innata, tale da renderlo lo scrittore più letto del momento. Tradizione vuole però, che dietro ogni fenomeno mediatico-culturale di un certo rilievo debba per forza esserci un’accesa polemica. E Gramellini non si fa mancare neppure questa. Infatti, sembra non essere stata ben vista la trovata televisiva per lanciare il libro, prodotto a tutti gli effetti “commerciale”, facendo leva su di una questione  tanto delicata e tragica come la morte di una madre, parlandone al pubblico come di un tipico giallo carico di suspense dai risvolti inquietanti. Al di là di ogni polemica, questo Fai bei sogni richiama l’attenzione di non pochi lettori, grazie a una scrittura scorrevole e immediata, capace di sfiorare sentimenti profondi e tragici ma che, all’occorrenza sa alleggerirsi con quella sottile ironia, tipica dell’autore torinese. Tra le altre pubblicazioni di Gramellini ricordiamo: Colpo Grosso con Curzio Maltese e Pino Corrias(Baldini & Castoldi 1994), Compagni d’Italia(Sperling & Kupfer 1997), Ci salveranno gli ingenui(Milano, Longanesi, 2007), Cuori allo specchio(Milano, Longanesi 2008), La patria, bene o male con Carlo Fruttero (Mondadori 2010) e il già citato L’ultima riga delle favole (Milano, Longanesi 2010).

Di Valentina Orsini



Al Teatro San Genesio va in scena il Gastone di Petrolini






Per la terza volta consecutiva la compagnia di Sandro Leo presenta la commedia Gastone. Lo spettatore ha di fronte una storia che rispecchia assolutamente i nostri tempi “ed è l’attualità il valore più grande di quest’opera”, ammette il regista. Rendono l’atmosfera i brani di Caprera, scritti apposta per lo spettacolo.

Lo scorso 27 marzo c’è stata la Prima di Gastone, opera fra le più note di Ettore Petrolini, rivisitata dal regista e fondatore della compagnia «La tana dell’arte», Felice Sandro Leo. Questa è la terza volta che la compagnia si imbatte nell’opera dell’autore e attore romano. “Quest’anno mi sono divertito un po’ di più - ammette il regista - perché su quindici personaggi ne ho cambiati tredici”. Al Teatro San Genesio, nel cuore del quartiere Prati, prima dello spettacolo si pregusta un inconfondibile sottofondo musicale, è la voce di Petrolini nel suo celeberrimo monologo recitato dal protagonista della serata, Gastone Durville.
Nonostante siano passati molti anni dalla prima volta di Gastone in palcoscenico, era il 1924 al Teatro Arena del sole di Bologna, lo spettatore ha di fronte una storia che rispecchia del tutto i nostri tempi. Ed è proprio l’attualità il valore più grande di quest’opera, come afferma lo stesso Leo: “ Petrolini è riuscito a mettere a nudo un quadro direi completo di tutto il mondo dello spettacolo, naturalmente con l'occhio della sua epoca ma i riferimenti della vita vissuta sono disgraziatamente ancora di grossa attualità. Gastone, come recita il mio testo riadattato, è dentro tutti noi e ognuno, chi più chi meno, si porta un po' di Gastone dentro”. La sala diventa buia, lo spettacolo sta per iniziare e una chitarra sul palco introduce la storia. Ad accarezzare le corde è il chitarrista e interprete Gianni Leo che accompagna la voce di Valentina Ciaffaglione, nei panni di Lucia.
Nella rivisitazione della commedia, di cui sono stati mantenuti i due atti, spiccano i quattro brani scritti dal musicista e autore  Carmine Caprera. “Sono un po' i nostri gioielli. I brani raccontano quei personaggi, quei momenti, quell'epoca. Caprera ha voluto adattare i brani proprio alle corde di questi due interpreti, che danno a tutto lo spettacolo un’atmosfera originale. Non delude il giovane Luca Pennacchioni, per la prima volta in un ruolo così difficile. Il suo Gastone è meschino e farfallone, perfetto prototipo del mondo dello spettacolo degli anni 20. Una storia paradossalmente del tutto umana, così recita la locandina dello spettacolo che ritrae Gastone di spalle, col bastone e il suo amato frac (disegnato da Matteo Romano). Tra gli altri interpreti ricordiamo Barbara Mecucci nei panni di Teresa, sorella di Lucia. Paolo Bianchi, Federico Sozio, Fabiana Pagani, Sonia Emiliani, Valentina Genovesi, Sandro Felice Leo, Gabriella Cervelli, Jessica Dobici, Valeria Forlini, Samanta Volpe, Simone Milli e Massimo Urbani.

Di Valentina Orsini

giovedì 19 aprile 2012

Howard Shore, "The horror man"



Il nome di Shore viene spesso associato al cosiddetto "cinema oscuro", quello in cui dominano le atmosfere inquiete, le dimensioni desolate che subito fanno venire in mente i film di Cronenberg. Eppure questo compositore merita d' esser citato nel panorama filmico-musicale non solo per il sodalizio con Cronenberg, bensì, per le infinite collaborazioni che fanno oggi parlare di lui come di un "grande" e soprattutto versatile musicista che ha dato e continua a dare ancora molto al nostro amato mondo del cinema. Howard Shore, nasce a Toronto nel 1946 e studia alla Berklee School of music di Boston. Suona il sax in un gruppo e compone le musiche di alcuni spettacoli teatrali per la BBC. Diventa poi direttore musicale, lo sarà per cinque anni, del "Saturday night live" dal 1975. Le prime realizzazioni per il cinema arrivano proprio con il regista Cronenberg, i cui film, soprattutto i primi, prodotti a basso costo, permisero al musicista di sperimentare tutta la sua creatività e gli consentirono infatti di inserire nella clasica orchestra, strumenti insoliti, come il sintetizzatore, appartenente alla famiglia degli elettrofoni. 




Tornando alla prima importante collaborazione di Shore, appunto con Cronenberg, c'è da dire, ma questo molti di noi lo sanno già, che di fronte ai suoi film lo spettatore a fatica riesce a marcare una chiara linea di confine tra la fantasia e la realtà e questo, oltre a dare come si dice in gergo "carta bianca" ad un compositore, poiché gli permette appunto di lavorare con una certa "libertà", senza vincoli troppo specifici, immerge lo spettatore in quelle atmosfere a dir poco inquietanti; e, oltre alla forte suggestione visiva che contraddistingue i suoi film, la componente musicale gioca un ruolo non meno "incisivo".
Vengono in mente dello stesso Cronenberg, Videodrome (1983), La mosca (1986), Inseparabili (1988), Crash (1996), Spider (2002), A history of violence (2005), La promessa dell' assassino (2007). Titoli questi, soprattutto i primi della sua carriera,  che bene incarnano l' horror e la suspense, nei quali il terrore psicologico si intreccia con quello strettamente fisico, "carnale" e nei quali appunto vi è un elemento musicale in grado di lasciare ancor più "scossi". Parlare di Shore ovviamente non significa parlare esclusivamente del sodalizio "canadese", faremmo un torto al compositore che non potremmo permetterci. Scorrendo infatti tra i lavori del compositore subito dopo Cronenberg arriva la collaborazione con un altro grande regista, David Fincher per il quale realizza diverse partiture: Seven (1995), The game-nessuna regola (1997) e Panic room del 2002. 
Un film che vale poi la pena ricordare è sicuramente Philadelphia (1993) di Jonathan Demme, capolavoro non solo cinematografico,  quanto mai "musicale", poiché Shore darà vita ad una memorabile colonna musica che comprende tra l' altro le canzoni di Springstein, Neil Young, Peter Gabriel e un brano lirico cantato da Maria Callas. Altro titolo importante, dello stesso Demme Il silenzio degli innocenti (1991).
Anche Scorsese si affiderà a Shore in più di un' occasione, pensiamo a film come Gangs of New York (2002), The Aviator (2004) per il quale Shore vinse un Golden Globe, e The Departhed del 2006.
A provare la versatilità di Shore ci sono poi titoli che appartengono al filone della commedia piuttosto allegra come Mrs Doubtfire-mammo per sempre (1993) di Columbus, La vita a modo mio (1994) di Benton, Terapia e pallottole (1999) di Ramis. Storie biografiche: Ed Wood (1994) di Tim Burton, Music Graffiti (1996) di Tom Hanks, o film d' altro genere come Riccardo III - un uomo un Re (1996) di Al Pacino.



Insomma già questo basterebbe per dire con una certa attendibilità che la carriera di Shore è sorprendente, ma Hollywood darà al compositore la definitiva "benedizione" con quelle che saranno le splendide musiche realizzate per la nota trilogia dell' anello di Peter Jackson. 
Arrivata a questo punto la carriera di Shore assume piena autorevolezza, si passa infatti da quelle musiche che in un certo senso facevano da sfondo, quasi, nei film di Cronenberg, indispensabili per catturare quell' ambiguità che si celava tra le immagini, all' "epica" di Tolkien.
Del 2001 è il primo capitolo, La compagnia dell' anello, in cui Shore introduce musica celtica per gli Hobbit, con canzoni di Enya e spunti mistico-corali che gli varranno il primo premio Oscar. Il secondo arriva un anno dopo, 2002, col titolo: Le due torri, l' unico a non ricevere riconoscimenti e il terzo del 2003, Il ritorno del Re. Con il capitolo conclusivo Shore si aggiudica due Oscar, per la miglior colonna sonora originale e per la miglior canzone "Into the west" interpretata da Annie Lennox.
Il musicista propone soprattutto negli ultimi due film elementi nuovi e non sottovalutiamo un fattore assolutamente importante come può essere la durata di ogni film, voglio dire, parliamo di circa tre ore di pellicola per ognuno e se pensiamo che la componente musicale non è quasi mai del tutto assente, ci rendiamo conto dell' immenso lavoro fatto da Shore per la partitura di questa trilogia.



Piccola curiosità su questo grande compositore, oltre alle musiche per Jackson, Shore realizza quelle per il rispettivo videogioco de Il signore degli anelli, da ricordare inoltre, per gli appassionati di videogames, le musiche per un famoso gioco per computer chiamato "Soul of the ultimate nation" o "SUN".
Per finire, ricordiamo i lavori più recenti, le musiche per il terzo film della "Twilight saga", Eclipse di Slade (2010), Hugo Cabret, Lo Hobbit – Un viaggio inaspettato e gli ultimi due titoli di Cronenberg, A Dangerous Method e Cosmopolis; merita d' esser citato questo libro: "The music of the lord of the rings films", scritto da un musicologo, Doug Adams, il quale è stato invitato personalmente dal compositore per poter osservare il lavoro "musicale" svolto durante i film, comprese le partiture; il libro infatti risulta essere un accuratissimo e interessantissimo "sguardo" sul modo di intendere la musica del grande Shore.
Vorrei non aver dimenticato nulla, o almeno spero d' aver racchiuso in queste righe quanto basti a rendere i meriti a un grande genio della musica per film, colui che in America è meglio noto come "The horror man".


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