sabato 16 luglio 2016

Saxophone Street Blues, di Hector Luis Belial

 
 
A me quelli che si nascondono dietro a innumerevoli biografie fittizie, stanno un po' sulle balle. Ma queste premesse, come dire, contano poco in letteratura. Contano poco pure nella vita, a dire il vero. Ma ora parliamo di libri, di un mezzo noir inzuppato nel pulp.
 
Se così si può.
Saxophone Street Blues viene pubblicato da una allora giovanissima Las Vegas Edizioni, nel 2008, e scritto da un altrettanto giovanissimo autore, tal dei tali Hector Luis Belial. Almeno, così dice.
Lui. L'autore.
Di norma prima leggo e poi pretendo di sapere qualcosa sull'autore. Ho come l'esigenza di sapere con chi ho avuto a che fare, tutto qui. Altrimenti non mi do pace.
Sono fatta così.
Quindi con il signor chenonsisachicavolosia ho avuto subito un impatto violento. Ma le sorti della prima impressione girano come la premessa di cui sopra.
Alla fine parliamo di letteratura, di storie. E chissenefrega se questo non vuole dirmi chi diavolo sia.
Ti è piaciuto il libro?
Sì.
Scrive bene 'sto tizio?
Sì.
Fine dei giochi.
 
L'autore rompe il ghiaccio subito. Partendo dalla fine, in qualche modo. Sappiamo infatti che morirà una donna, di una morte orribile. E che ad essa ne seguiranno delle altre.
Tutte ovviamente legate dallo stesso palcoscenico lurido e insanguinato, che è Saxophone Street.
Una metropoli immaginata dall'autore, che porta però la memoria cinematografica e letteraria ai bassifondi di una New York fin troppo stereotipata. Il che non è nemmeno un male, dal punto di vista narrativo. Perché tutto funziona, a partire dagli odori e dai colori che l'autore riesce a seminare nella testa del lettore.
La pioggia, lo smog e il nulla suburbano, conferiscono al romanzo quel carattere tipicamente noir e portano inevitabilmente alla definizione di pulp, termine abusato - è vero - sia nel cinema che nella letteratura.
Oltre al rosso della copertina, però, che è davvero accattivante (e che più pulp non si può), Saxophone Street Blues ha il pregio di correre lungo le pagine senza mai perdere colpi. Un romanzo breve che si lascia scoprire, una moltitudine di storie e personaggi che ricorda molto il cinema di Michael Mann, e ha i volti di De niro e Al Pacino. Come pure il volto stanco e disilluso del detective William Somerset (Morgan Freeman in Seven, di David Fincher).
 
Citazioni a parte, Tarantino pure, c'è da dire che il giovane scrittore abbia esordito senza passare inosservato. Non è un libro ricco di colpi di scena, anzi. Funziona come quei film in cui l'attore rompe la quarta parete e parla allo spettatore. Alla fine questo fantomatico Hector è pure tanto presuntuoso e arrogante da dirti che lui è Dio Onnipotente che decide come far andare le cose...
Be' - ragiona - mica ha tutti i torti!
Nei suoi monologhi interiori e mai confessi, magari, e nel suo nome fittizio, c'è più verità che altrove.
Caro Hector, ti perdono per non avermi ancora detto chi sei, ma giusto perché il tuo libro mi piace, a partire dal titolo.
 
Quel "Blues", detto tra noi, credo faccia la differenza.
Perché è vero, il blues è come la vita.
È facile da suonare ma è difficile da sentire.
 
Consigliato?
Assolutamente sì.

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