venerdì 27 settembre 2013

In viaggio con papà



Non so dire con precisione cosa accada, quando sentiamo all'improvviso il bisogno di tornare su certi film. Forse avrà aiutato in questo senso il giochino di ieri, per il quale ho ripercorso in una mezza giornata, i film della mia vita, dal 1985 ad oggi. Il film di cui vorrei parlare oggi però in quella lista non c'è, causa "incongruenze anagrafiche".

E' del 1982 In viaggio con papà, uno dei quasi venti titoli che videro Alberto Sordi, non solo come interprete della commedia italiana, ma anche sceneggiatore e regista. Perché tornare su questo film, vi starete domandando...per me è molto più semplice di quanto possa sembrare. Due nomi, impressi e marchiati col fuoco nella mia vita, sommati a un pezzo di storia cinematografica e personale che segna il cosiddetto, fatidico, passaggio generazionale.

Sì, è vero, nel 1982 dovevo ancora nascere, ma la prima significativa prova della riuscita del film risiede proprio qui. Quando vidi In viaggio con papà, io avrò avuto dieci anni, più o meno. Quindi mettiamo fosse il 1995. Conoscevo Alberto Sordi perché in casa era come lo zio misterioso e avventuriero, che vagava per il mondo e portava a tutti la sua Arte. Lo conoscevo, ma ancora non capivo bene...Carlo Verdone invece mi era già entrato nel cuore, sapevo che quel viso buffo e quegli occhi a guardare il cielo, mi davano una serenità e una gioia tale per le quali io gli sarei stata eternamente grata. E così è stato.

Cristiano e Armando, rispettivamente Verdone e Sordi, un figlio e un padre. Il primo imbranato e fissato con l'ecologia (come dimenticare la sequenza sul Ponte Sisto?), soprattutto con i gabbiani. Il secondo uomo in affari, eterno Don Giovanni con un matrimonio alle spalle. I due si ritrovano ad affrontare il viaggio che avrebbe portato Cristiano in Corsica, a raggiungere il resto della comunità, e il padre dalla "figlia dell'ingegnere". Ovviamente Armando non sarà il tipico padre entusiasta della compagnia del figlio che vede solo di tanto in tanto, no. Dopo svariati tentativi di liberarsene, Armando sarà vittima di una grande beffa. La stessa che dà all'intero film poi, quel tocco di umanità e drammaticità che sa distinguerlo dalla tipica commediuola leggera e "volgarotta", come hanno sostenuto in molti.


E proprio perché a me piace buttarmi "di testa" contro le critiche più insulse e inutili che, purtroppo, non riesco ad evitare, voglio ricordare con le stesse sensazioni di allora il film che vide insieme i due pilastri e rappresentanti della "mia" romanità e, di una buona parte del mio amore per il cinema. Chi legge saprà comprendere, forse, e capirà da dove arrivi questa esigenza di "tutelare", nel limite delle mie possibilità, una commedia piacevole e amara, che parla soprattutto di un padre e un figlio. Delle difficoltà nel relazionarsi, nonostante le divergenze etiche e morali e, generazionali. Il figlio un po' ritardato, che simula i versi di ogni specie di volatile e si turba, pensando al sesso o all'immagine di una donna nuda. Dall'altra parte un padre che cerca a tutti i costi, a modo suo, di spiegare al figlio che nella vita davvero, contano i soldi e il sesso. Mi vengono in mente diverse sequenze, in casa con la madre di Cristiano e il nuovo compagno (interpretato da un sempre grande Angelo Infanti), il cane sul letto nella sua vecchia cameretta. La governante di colore "che c'ha paura che tutti je toccano e zinne". Oppure la sorella che fa pipì con la porta del bagno aperta. E la nonna lasciata sotto il sole...

Chi parla di questo film come di una commedia volgare e inutile, e la disprezza, non ha capito nulla. Quando in macchina il figlio domanda al padre che fine abbiano fatto i valori di una volta, e Sordi sorridendo con viva comprensione, parla di una vita che è cambiata, che si è sfasciata. Cambiano le persone, gli affetti rimangono, ma con tanto di egoismo. Ci si arrangia, e alla fine quel papà distratto proverà a raccontarti una storia, quella della nonna in paese, e proverà a spiegarti la sua sul consumismo. Ma finisce che tu ti addormenti in macchina accanto a lui, quando poco prima gli gridavi il tuo ideale di comunicazione. Chi vede volgarità in questo, ha problemi...

Verdone con ingenuità e modestia si presta al ruolo del figlio-allievo, che fonde i caratteri che lo hanno reso in precedenza noto al pubblico. Un Ruggero e un Mimmo nel corpo di un bamboccione che viaggia con il padre e, lungo il cammino, ascolta e impara (o insegna?) la lezione più difficile. Non è cinema, è la vita. E questo viaggio lo abbiamo affrontato tutti, chi più chi meno.

Anche il Sig. Morandini...

"Armando, ricco e sottaniere, ha un figlio adulto, timido, introverso e con la passione per l'ecologia. Vanno in vacanza insieme. Quale dei due educherà l'altro? Per divertirsi a questo film bisogna essere un po' necrofili: è spettacolo della corruzione, putrefazione, suppurazione di ogni genere. Battute banali e volgari".
(Da Il Morandini Zanichelli editore)

*A Morandì, io non so' necrofila, te lo posso garantì. Non vengo nemmeno pagata pe' scrive. Ma a vedè bene, a sentì bene, la puzza de corruzione e putrefazione, e la volgarità vera, tu dovresti sapè mejo de me, da dove proviene...basta che rimani 'ndo stai e lo capisci!!!



giovedì 26 settembre 2013

I film della mia vita. (Auguri Frank!!!)



Ci risiamo, ogni tanto questi folli Blogger se ne escono con una delle loro strane idee. Fanno così, lanciano iniziative talvolta grottesche ma sempre interessanti e contagiose, tanto che alla fine tutti quanti ci accodiamo lungo la scia dell'entusiasmo, tipico "da Blogger". Per capire, succede che Frank Manila, il nostro amico de Il Cinema Spiccio si vede il suo bel blog compiere tre anni. Ha pensato così di festeggiare e coinvolgere buona parte della blogosfera, lanciando un invito a stilare una sorta di lista che, possa racchiudere nella sua interezza, tutti i migliori film della nostra vita. Mi son detta, vabbè 1985-2013, dai non sono così vecchia da impazzire per andare a ripescare i film della mia vita...dunque, proviamoci!!!

1985 - Ritorno al futuro
1986 - Stand By Me - Ricordo di un'estate
1987 - Good Morning, Vietnam
1988 - Nuovo Cinema Paradiso
1989 - Compagni di scuola
1990 - Edward mani di forbice
1991 - Hook - Capitan Uncino
1992 -  Eroe per caso
1993 - Nightmare Before Christmas
1994 - Pulp Fiction
1995 - I soliti sospetti
1996 - Hamlet (di Kenneth Branagh)
1997 - Bugiardo Bugiardo
1998 - American History X
1999 - Il mistero di Sleepy Hollow
2000 - I cento passi
2001 - Il diario di Bridget Jones
2002 -  Prova a prendermi
2003 - Big Fish - Le storie di una vita incredibile
2004 - Le conseguenze dell'amore
2005 - Batman Begins
2006 - The Prestige
2007 - Into the Wild - Nelle terre selvagge
2008 - The Dark Knight
2009 - (500) giorni insieme
2010 - Inception
2011 - The Artist
2012 - The Dark Knight Rises
2013 - La grande bellezza
Ovviamente nel tentativo di ripercorrere velocemente i miei ricordi e le mie visioni cinematografiche, potrei aver dimenticato qualche cosa di tanto, ma tanto clamoroso...lo saprò tra pochi minuti. In ogni caso, questo è quanto e...Auguri Frank!!!

giovedì 19 settembre 2013

Rush. Al di là dello sport, dove esiste "l'uomo".




Ron Howard torna a collaborare con lo sceneggiatore Peter Morgan per la seconda volta, dopo aver portato sul grande schermo uno dei dibattiti più noti alla tv americana, con il film Frost/Nixon - Il duello. Lo sceneggiatore britannico in effetti vanta una certa familiarità con la storia moderna, ricordiamo altri titoli importanti come L'ultimo Re di Scozia, The Queen - La regina, o il film per la tv, ultimo capitolo di una trilogia dedicata a Tony BlairI due presidenti

Per quanto riguarda Howard, eravamo rimasti a Il dilemma, ultima pellicola della sua filmografia prima di arrivare a questo ritratto di una cronaca sportiva tra le più note, almeno per gli appassionati, che la Formula 1 ricordi. Curioso pensare che proprio gli anni in cui la vicenda si svolge, a cavallo tra gli anni '60 e '70, sono gli stessi che vedevano esplodere allora la serie televisiva che raccontava la vita comune nel Wisconsin, laddove un giovane attore stava per compiere il fatidico passaggio dietro la macchina da presa. 

Quando parliamo di film che sono al tempo stesso biografie, racconti più o meno fedeli di fatti realmente accaduti, di cronaca reale o sportiva, dobbiamo tener conto dei diversi rischi cui andiamo incontro noi spettatori, così come i fautori dell'impresa. E' chiaro che la difficoltà maggiore risieda nel riuscire ad attirare l'attenzione di quanti più spettatori possibili. Considerare la possibilità che molti non hanno vissuto quella determinata epoca, non sono a conoscenza di quei fatti, oppure semplicemente non hanno mai seguito una gara di Formula 1. Nel caso di Rush appunto, il rischio era proprio questo. 


Senza soffermarci troppo sulla vicenda, ma neanche troppo poco nel rispetto di quanti ancora non la conoscessero, diciamo che Rush è soprattutto la cronaca di una rivalità intercorsa tra due piloti, Niki Lauda/Daniel Bruhl e James Hunt/Chris Hemsworth. Entrambi partiti dalle piste della Formula 3, arriveranno poi a coronare il loro stesso sogno, quello di correre insieme ai "grandi", in Formula 1. Stesse ambizioni, stessa sfacciata voglia di vincere e di sfoggiare la stoffa del campione assoluto. Lauda però era la mente razionale, per quanto questo termine possa essere accettato quando si corre a 300 orari e anche più (credo...). Razionale forse perché a differenza di Hunt, trovava il tempo per fermarsi un attimo a pensare, e quando pensava Lauda pensava un "genio", anzi, un "computer", ed era così che lo chiamavano i suoi amici (e non). Lauda non era un simpaticone, e nemmeno sapeva farsi voler bene, al contrario del rivale Hunt, bello (e stronzo) e dotato di una spiccata indole alle relazioni di comodo, ancor prima che affettive. Sapeva bene, l'inglese, che avere tanti amici avrebbe potuto fare la differenza in determinate occasioni della vita, e non aveva torto. Quella mattina a Nurburgring, era il 1 agosto 1976 (e parliamo del film di Howard), Lauda voleva annullare la gara a causa delle terribili condizioni meteorologiche. A votazione, tutti i piloti, scelsero di correre, appoggiati dal leader del momento, Hunt. E' proprio su quel "Ring" poi, che avvenne l'imprevedibile.

Lauda esce vivo da quelle fiamme, ma in condizioni gravissime e con ustioni di terzo grado su quasi tutto il corpo. Un incubo, ma la voglia di vivere avrà la meglio. La voglia di tornare a correre, e "vincere" soprattutto. Sorprendendo medici, colleghi e spettatori di tutto il mondo, Niki Lauda torna in pista il 12 settembre del 1976, a distanza di poco più di un mese dal giorno dell'incidente.  

I veri Lauda e Hunt 

Al di là della cronaca sportiva, e lo dico perché sono completamente ignorante in materia, mi piace parlare di Rush come uno di quei film cui accennavamo sopra, che tenta un'impresa e la porta a termine in maniera impeccabile. Lo spettatore che guarda e non sa, cosa sia accaduto e cosa realmente si provi a veder sfrecciare auto e piloti, e le loro vite sospese, non si sofferma sul rigore della cronaca, dei fatti reali. Al contrario di quanto faranno i conoscitori e appassionati di Formula 1, è chiaro. La cosa incredibile è che lo spettatore comune vede il film e si sente risucchiato come in un rombo lungo 123', sente nella pancia e negli occhi l'emozione di chi lo fa da sempre e ama quello sport. E non credo sia un caso che anche Howard fosse un profano in materia, completamente lontano dai giri della Formula 1, eppure così attento a cogliere le sfumature dei protagonisti, le loro debolezze, le loro paure e la loro profonda intesa. Tutto questo un altro regista probabilmente non avrebbe saputo farlo, o almeno renderlo sullo schermo  e inserirlo in un contesto così "frastornato". Cogliere il lato umano dei suoi personaggi, così come accadde nel film A beautiful Mind, per dirne uno. Aiuta la bravura e la versatilità di un grande attore, quale è Bruhl. E non solo per le ore di trucco dedicate al volto ustionato o ai denti finti, parliamo soprattutto di un'interpretazione che porta con naturalezza chi guarda, a conoscere più da vicino la personalità di quest'uomo. Almeno a me è successo questo.


Howard punta ad affascinare e a conquistare gli occhi dello spettatore attraverso una padronanza registica che non ha bisogno di presentazione. Noi siamo incollati all'asfalto, a quei fili d'erba che vengono sollevati violentemente dalle auto, ma sembrano non soffrirne. Eppure il nostro reale interesse, ciò che vediamo e arriva prima al cuore che agli occhi, è circoscritto nei rari momenti silenziosi del film. Quelli brevi ma che sembrano eterni, fissati senza tempo e spazio sullo schermo. Gli sguardi tra Niki e James, la loro intesa, tutto ciò che correva lungo quel filo inafferrabile. Perché a volte nella competizione non c'è solo la voglia di vincere, e farlo a tutti i costi. Esiste qualcosa che va al di là dello spettacolo sportivo, di tutto ciò che ruota attorno ai miliardi per i diritti televisivi e tutto il resto. "Esiste l'uomo". E' qui che vince Howard. Ed è qui che Rush vi farà tornare, una volta usciti dalla sala...


mercoledì 11 settembre 2013

"L'onestità", l'evoluzione di un concetto perduto.



È pericoloso, data la facilità con cui si sbaglia, vivere puntando solo sull'onestà

Questo è quanto sosteneva Tito Livio, voce storica di quella Ab Urbe condita che scandì gli anni della fondazione della città eterna in libri, o annali. Certo oggi è difficile agguantare con tanta lungimiranza e lucidità ,un concetto così complesso come quello dell'onestà. Oggi probabilmente si pensa all'onestà e ci si sente onesti fino al midollo quando con attenzione correggiamo la cassiera del supermercato, magari dopo aver visto che la poveretta, aveva sbagliato a fare i conti con il nostro resto. Oppure capita di sentirsi piccoli paladini dell'onestà, quando vediamo cadere qualcosa dalla tasca di un passante, se il malcapitato poi ha una certa età la nostra autostima cresce a dismisura, sì ammettiamolo. Ci sentiamo piccoli eroi per caso in queste occasioni...

Però al di là delle nostre piccole imprese, più o meno normali, esiste davvero qualcosa che sappia rinnovare in noi il concetto di onestà? Qualche giorno fa ero per l'appunto, al supermercato. Ero davanti ai litri di latte, poco prima del chilometro di yogurt e cose simili, quando mi va l'occhio su questo tizio non molto distante da me. Ancor prima dell'occhio l'orecchio, e sento una sorta di "filosofeggiare contemporaneo" che a me personalmente manda in delirio. Avete presente quel tipo sulla cinquantina, marsupio alla vita, occhialetto che fa figo sulla testa, sigaretta elettronica al collo, tre quarti di un jeans sbiadito e polo? Bene, il tizio è esattamente così, lo guardo e lo metto a fuoco ed è assolutamente preso da un suo certo modo di esporre, alla poveretta che gli stava di fronte, il concetto di "onestità". 

Perché ancora la chiamate onestà voi? Dai...
Insomma non poteva non catturare la mia attenzione, soprattutto l'idea di riflettere ancora una volta su questa parola che, sembra fare più paura di un sorriso all'agente del Folletto che incroci per sbaglio sulla via del ritorno, per andare a casa. Nonostante l'immediata reazione al folklore grammaticale del tale, ho iniziato a guardare questa scenetta con altri occhi. Non so il fatto che i due, molto probabilmente nemmeno si capivano a vicenda, eppure sapevano ascoltarsi, annuire con pazienza l'uno all'altra. Mi intenerisco per poco ultimamente lo so, che volete che vi dica...

Mi è tornato alla mente un passo di Calvino tratto da Romanzi e Racconti, qualcosa che ho avuto la fortuna di sfogliare durante la preparazione della Tesi di Laurea. Calvino parlava di onestà e la paragonava a un tic nervoso, ad un'abitudine mentale, a quella fetta di gente che ancora continuava a farsi degli scrupoli mentre il mondo attorno, altro non faceva che favori ai quali si sarebbero susseguiti degli altri e così via. 

"Così tutte le forme d’illecito, da quelle più sornione a quelle più feroci si saldavano in un sistema che aveva una sua stabilità e compattezza e coerenza e nel quale moltissime persone potevano trovare il loro vantaggio pratico senza perdere il vantaggio morale di sentirsi con la coscienza a posto. Avrebbero potuto dunque dirsi unanimemente felici, gli abitanti di quel paese, non fosse stato per una pur sempre numerosa categoria di cittadini cui non si sapeva quale ruolo attribuire: gli onesti. 

Erano costoro onesti non per qualche speciale ragione ( non potevano richiamarsi a grandi principi, né patriottici né sociali né religiosi, che non avevano più corso), erano onesti per abitudine mentale, condizionamento caratteriale, tic nervoso. Insomma non potevano farci niente se erano così, se le cose che stavano loro a cuore non erano direttamente valutabili in denaro, se la loro testa funzionava sempre in base a quei vieti meccanismi che collegano il guadagno col lavoro, la stima al merito, la soddisfazione propria alla soddisfazione d’altre persone. In quel paese di gente che si sentiva sempre con la coscienza a posto loro erano i soli a farsi sempre degli scrupoli, a chiedersi ogni momento cosa avrebbero dovuto fare. Sapevano che fare la morale agli altri, indignarsi, predicare la virtù sono cose che trovano troppo facilmente l’approvazione di tutti, in buona o in malafede. Il potere non lo trovavano abbastanza interessante per sognarlo per sé (almeno quel potere che interessava agli altri); non si facevano illusioni che in altri paesi non ci fossero le stesse magagne, anche se tenute più nascoste; in una società migliore non speravano perché sapevano che il peggio è sempre più probabile. 

Dovevano rassegnarsi all’estinzione? No, la loro consolazione era pensare che così come in margine a tutte le società durante millenni s’era perpetuata una controsocietà di malandrini, di tagliaborse, di ladruncoli, di gabbamondo, una controsocietà che non aveva mai avuto nessuna pretesa di diventare la società , ma solo di sopravvivere nelle pieghe della società dominante e affermare il proprio modo d’esistere a dispetto dei principi consacrati, e per questo aveva dato di sé ( almeno se vista non troppo da vicino) un’immagine libera e vitale, così la controsocietà degli onesti forse sarebbe riuscita a persistere ancora per secoli, in margine al costume corrente, senza altra pretesa che di vivere la propria diversità , di sentirsi dissimile da tutto il resto, e a questo modo magari avrebbe finito per significare qualcosa d’essenziale per tutti, per essere immagine di qualcosa che le parole non sanno più dire, di qualcosa che non è stato ancora detto e ancora non sappiamo cos’è". 

Tratto da Romanzi e racconti – volume 3°, Racconti e apologhi sparsi, i Meridiani, Arnoldo 
Mondadori editore. Uscito su la Repubblica, 15 marzo 1980, col titolo “Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti".

Dalla consapevolezza di una mente e di un paio d'occhi illuminati e illuminanti come quelli di Calvino, scivolo di colpo nei simposi da supermercato, non c'è più alcuna forma o logica letteraria, grammaticale che sia, eppure rimane qualcosa di irrimediabilmente immutato nel tempo. L'inconsapevolezza di poter essere parte di qualcosa che un attimo prima ci appartiene, un attimo dopo no. Va e viene, passa attraverso di noi, probabilmente. E nemmeno lo sappiamo...oppure lo percepiamo appena, mentre al supermercato per caso un tizio all'apparenza sconsiderato, racconta storie comuni, che parlano anche di noi. E ci fermiamo, ed ascoltiamo...



martedì 10 settembre 2013

"Tim Burton e Mary Poppins". Mettiamo che sia vero...



A volte sulle cose ci inciampo un po' tardi, lo ammetto. Così, arrivo solo ieri alla voce che vede protagonista Tim Burton, in questo ipotetico progetto che grida al remake di un classico da novanta della Disney, ovvero Mary Poppins.

Sì ok è una bufala dichiarata!!! Leggo sul sito badtaste.it che altro non è che un grosso, grossissimo Pesce d'Aprile. Specifichiamo poi che il suddetto risale al 1° Aprile 2011, quindi, fate un po' due conti...
Ma io non ne sapevo nulla e, come spesso accade quando si parla di Tim, mi inquieto non poco e prendo parte ad accesi dibattiti sull'argomento. Mi inquieto perché mi sono stufata di sentire le solite cose, come la storiella: Burton fallito - Fantoccio della Disney - Ha esaurito le idee - Buuuuu - etc. etc.

Al di là del terrore insito nella parola "remake" (ake ake ake...), io non comprendo lo spirito esploso attorno a questa news, seppur dichiaratamente falsa. So che è difficile accettare il fatto che molto spesso si vadano a toccare capolavori cinematografici tanto grandi e perfetti, gli stessi che, fin dal primo momento, ci hanno fatto credere che sarebbero rimasti tali nonostante il tempo. Ma, come si dice: prima lo accetti meglio è. Per l'industria cinematografica, per le logiche di mercato secondo le quali la quantità domina incontrastata sulla qualità, questo è quanto. Il remake s'ha da fa!

Ma, mettiamo per un attimo che tutto ciò sia vero...
Ovviamente quando uscì la notizia/bufala/pesce d'aprile tutti avranno (dico avranno perché io me la sono persa) avuto da ridire su quello che sarebbe stato senza dubbi il cast di Mary Popins versione Burton. Capirai Johnny Depp/Spazzacamino con le sue faccette smorfiette e poi la Helena Bonham Carter/Mary che recita solamente perché è la moglie di questo regista schizzato che ha trovato una più schizzata di lui. Sì sì, avranno detto così. Ormai li conosco troppo bene...

Giù le mani dal mio Tim-Poppins!!!

Addirittura, proprio questi giorni che ho rispolverato la news, qualcuno sostiene convinto che la Carter sia una attrice bidimensionale che fa sempre le stesse cose. (Bah, mistero della fede). Oppure i più acerrimi adepti della cerchia antiburtoniana altro non fanno che alimentare la loro stessa ragion d'essere, quindi rimando alle storielle sopra elencate. Io, come potrete ben immaginare, mi dissocio da tutto questo "nooooooooo" che in linea generale riguarda un po' tutti, almeno la maggior parte di noi(voi). Sapete, io sarò matta o poco obiettiva e vedrò le cose a modo mio, ma pensare a Mary Poppins e immaginare ciò che Burton potrebbe fare...beh, non mi fa poi così schifo. Insomma non si farà, probabilmente né ora né mai. Ma se proprio s'ha da fa, che chiamino il mio Tim. Alla faccia di chi non crede in lui.

Ma come si fa a dire che non è perfetta?




P.S. se penso a Helena versione Mary con tanto di ombrellino e borsetta, MUORO.
(una morte serena, sia chiaro).


sabato 7 settembre 2013

Turbo - Non si è mai troppo piccoli per sognare...



Tra queste righe prevarrà come non mai, e al di là del film stesso, una sorta di entusiasmo che saprà fissare a lungo termine uno dei ricordi più importanti della mia vita di donna/madre/cinecriticocompulsiva...

Già, perché quella di ieri è stata la tipica serata da scrivere sul calendario alla vecchia maniera, con tanto di penna e gioia negli occhi. E' avvenuto il "battesimo del grande schermo" per il mio piccolo uomo, la sua prima volta "ufficiale" al cinema e voi potete immaginare quale soddisfazione, quale emozione sia stata vederlo lì, così piccolo e pieno di stupore negli occhi mentre provava a sistemarsi su quella poltrona che mai, fino ad ora, mi era sembrata così "grande". E' chiaro che per Turbo, non si potrà fare la classica recensione imparziale (anche se poi non lo sono mai), quindi spero che voi sappiate comprendere, a partire da ora, la parte di me che è più mamma, e meno critica.

La DreamWorks a me personalmente non ha mai deluso, parlo da grande e penso soprattutto all'ultimo film visto durante lo scorso Festival Internazionale del Film di Roma, Le 5 Leggende. Penso poi a tutta una serie di titoli passati di qua, in casa, e ricordo bene l'entusiasmo dei bambini (in particolare il grande perché il piccolo è ancora nella fase "Barbapapà-Peppa Pig"), per Madagascar, Spirit - Cavallo selvaggio (uno dei miei preferiti!!!), oppure Shrek, Mostri contro Alieni, Kung Fu Panda. Devo ammettere che mio figlio già sembra manifestare una certa predilezione che spinge in casa Pixar, beh, come biasimarlo? 


Ma torniamo a parlare di Turbo. E' tutto molto semplice (dipende dai punti di vista), rincorrere un sogno anche a costo di sfidare la propria natura, rischiare tutto pur di dimostrare a noi stessi che ciò che agli altri può sembrare assurdo per noi è assolutamente "fattibile". Turbo è esattamente questo, l'incarnazione del piccolo sognatore che passa le notti davanti alla tv ad ammirare le corse automobilistiche e le interviste del suo più grande idolo Guy Gagne. Mentre i suoi simili si danno da fare, con molta calma e rassegnazione, per svolgere tutti i compiti che madre natura gli ha gentilmente concesso, Turbo guarda oltre quel muro che separa due mondi. Un piccolo orto e pomodori maturi per pranzo, una catena di montaggio e una cornacchia che, puntualmente, porta via ogni giorno un piccolo membro della comunità. Dall'altra parte del muro, il giardino in cui si muove questo ragazzino mezzo boss con tanto di triciclo e occhialetti da sole, pronto a schiacciare ogni essere che sia più piccolo del suo stesso naso. Il destino però ha in serbo per Turbo qualcosa di "speciale", di inverosimile...ed è così che il piccoletto si ritroverà nel circuito di Indianapolis accanto al suo idolo di sempre.

Ma come la vita spesso insegna, raggiungere i nostri sogni in compagnia di qualcuno che ci sostiene, può davvero fare la differenza. Turbo incontrerà Tito (i parallelismi con le loro vite sono molteplici, a partire dal fatto che tutti e due hanno accanto un fratello più grande e realista, tanto da smontare all'occorrenza ogni entusiasmo) e delle simpatiche lumache da corsa, tra queste non si può non citare la lumachina con la voce di Samuel L. Jackson perché è insuperabile...
(Faccio finta di non sentire quel che ho palesemente sentito...) a tratti infatti pensavo di sentire da un momento all'altro "Ezechiele 25:17...", sarebbe stato troppo in effetti. Anche perché per Luca è ancora lontano il momento "Tarantino". 


La cosa che più conta ora è ribadire un concetto fondamentale, la fiducia in noi stessi. Ecco perché non mi interessa poi più di tanto dirvi che Turbo non è un film perfetto, che a tratti rallenta e si perde in trovate banalotte e già viste, no. Voglio parlare solamente di tutto ciò che potrei dire a mio figlio oggi, dopo la sua prima volta al cinema. Voglio sperare che non sia solo un caso il fatto che per la sua prima volta, in quella grande sala buia, lui abbia sentito parlare di sogni e di determinazione. Di coraggio e di fiducia. Voglio credere che tutto questo possa lasciare in lui un segno indelebile, che lo aiuti nel corso della sua vita a mantenere sempre, un pizzico di lucidità e un pizzico di follia. Affinché lui non si senta mai troppo piccolo, oppure, qualora dovesse accadere, vorrei che lui ricordasse quanto fosse piccolo quel giorno in sala e quanto fosse grande ciò che lo circondava...

"A te piccolo cinefilo, che questo possa essere il primo di una serie infinita di film che vedrai, vedremo e sogneremo ancora..."


venerdì 6 settembre 2013

"Tu, mio" di Erri De Luca - Ci sono dei niente che non si staccano più.

Questa estate sotto l'ombrellone ho pensato di accompagnare le mie giornate, o meglio i miei attimi di leggera solitudine, con un libro insolito rispetto ai miei scelti precedentemente e messi in valigia. Ho pensato di scoprire qualcosa di più riguardo a uno scrittore italiano, definito da molti "lo scrittore del decennio", Erri De Luca. Ciò che mi ha spinto verso di lui è stata credo la sua delicatezza nel provare a spiegare "perché" abbiamo bisogno dei libri. Cosa cerchiamo nelle pagine e nei sentimenti che in fondo non ci appartengono direttamente. Gli stessi che, appena sfogliata l'ultima pagina, sembrano come per magia essere stati nostri da sempre...

La prima cosa che ho pensato di questo scrittore, è che avesse una capacità innata e molto rara, soprattutto oggi, di tirar fuori le sfumature delle sensazioni più sottili e complicate che animano gli esseri umani. E' così che leggendo Tu, mio ho potuto confermare questa idea. Erri De Luca prende il corpo magro e l'esplosione di sentimenti propri di un ragazzino di sedici anni e ci porta nel mare di una Napoli lucente, meta di turisti e patria di pescatori. Palco ondulante e soleggiato che ancora racconta con lucida memoria i passi di una guerra terribile, conclusa circa un decennio prima. 

"Dopo la guerra i vivi avevano indurito il silenzio", questo il giovane protagonista di De Luca lo sapeva bene. Così come sapeva di essere diverso dai suoi coetanei, quelli che pensavano a divertirsi in spiaggia, ad accogliere le belle turiste approdate sull'isola e a godere di ogni attimo di legittima spensieratezza che dovrebbe, almeno, fissare uno dei momenti più belli della nostra vita: l'adolescenza. In mare con lo zio, il cugino più grande Daniele e Nicola, una delle figure più importanti (a mio avviso) apparse nelle pagine del libro, questo ragazzino scopre una irrefrenabile esigenza di "sapere" e conoscere un passato neanche troppo lontano. Un passato fatto di guerra, di tedeschi e di spari implacabili, di un accento incomprensibile e di come oggi tutti gli uomini e le donne che allora videro, abbiano scelto la via del silenzio, del dimenticare coatto, necessario a vivere.


De Luca trova nella figura di una ragazza ebrea, Caia, il modo più dolce o meno doloroso se vogliamo, per aiutare il giovane a comprendere quella realtà che non lo ha visto presente. Attraverso un amore adolescenziale e puro, che a tratti si innalza ad amore carnale (paterno), l'autore porta il lettore a scavarsi dentro, a porsi domande nuove (o le più vecchie) che, inconsapevolmente, da sempre affliggono gli uomini.

Ci porta a riflettere sul come nella vita a volte, porsi domande e cercare le risposte possa scombinare la calma e il male dell'omertà esistenziale. Un male che attanaglia tutti noi, quelli che optano per il niente e, strada facendo perdono tutto...

"Ci si innamora così, cercando nella persona amata il punto a nessuno rivelato, che è dato in dono solo a chi scruta, ascolta con amore. Ci si innamora da vicino, ma non troppo, ci si innamora da un angolo acuto un poco in disparte in una stanza, presso una tavolata, seduto su un gradino mentre gli altri ballano". 

giovedì 5 settembre 2013

The Rum Diary - Cronache di una passione



Nel 1998 Johnny Depp si prestò ad incarnare quella sorta di alter ego, o meglio riflesso semi-autobiografico che fu Hunter S. Thompson, nel film diretto da Terry Gilliam Paura e delirio a Las Vegas. Tratto dal libro dello stesso scrittore e giornalista statunitense, scomparso nel 2005, il film vede nel deserto del Nevada questo giornalista Raoul Duke, ingaggiato per scrivere un articolo sulla gara motociclistica cosiddetta off-road.

Certo ne passano di fiumi di rum tra "quello e questo", ovvero Le cronache di una passione che il regista di Shakespeare a colazione ha tentato, senza riuscirci, di riportare sullo schermo; complice anche il particolare attaccamento di Depp all'autore e al romanzo nello specifico. Peccato. Peccato perché la storia di Paul Kemp avrebbe potuto ricevere maggior dignità, se non altro senza essere schiacciata dal paragone inevitabile con il film di Gilliam. Altra storia...


Qui c'è Kemp/Depp, un giornalista mezzo fallito che da New York approda a Porto Rico e si ritrova nel mezzo di una missione coraggiosa in partenza, ma ubriaca fino alle ossa, così come la stessa regia di Sir. Robinson. A dare tono poi alla vicenda individuale di Kemp c'è la femme (sì ma robetta, nulla di che...) chiamata Chenault/Amber Heard, il riccone avido Sanderson/Aaron Eckhart, un compagno paffuto e altrettanto alcolizzato, ma fedele, e un ex giornalista invasato da droghe, alcol e soprattutto dalla dottrina del fuhrer. Sul personaggio di Giovanni Ribisi ricade forse il più grande rammarico, la maggior parte di quella consapevolezza che fa parlare di un film che poteva dare e non ha dato. In realtà, ciò che manca nella complessità del film è proprio questa poca luce data ai personaggi (alle loro relazioni), che, presi ad uno ad uno sarebbero stati sicuramente interessanti e complessi. A partire dallo stesso Kemp, eroe coraggioso e fondamentalmente "ottimista" che si batte per la sua passione e tenta, finché può, di denunciare i suoi fratelli americani, intenti a schiacciare gli abitanti dell'isola. E attenzione a non cadere nella trappola della distribuzione italiana che, come al solito, tende a fuorviare lo spettatore, portandolo sulla via della storiella d'amore con la biondona mozzafiato, dimenticando invece che la fiamma vera e propria derivi dalla passione per una professione oggi sempre più complicata, quella del giornalista.


Dalla visione drogata e allucinata di una realtà in bilico e, sempre a un passo dal risveglio, da un coma apparentemente infinito, cosa che aveva impeccabilmente centrato Gilliam nel suo Paura e Delirio a Las Vegas, ci si ritrova nel mezzo di vuote e inutili cronache di una passione che, nemmeno per un istante, imboccano il sentiero che porti nel centro di quella fiamma chiamata "passione". 
Non è bastato Depp, non è bastata l'interpretazione, diciamo sopra le righe, di Ribisi, e non sono bastate nemmeno quelle trovate degli occhi rossi e allucinati sotto effetto di una chissà quale droga portoricana...


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